Terra Cruda: storia di un uliveto senza tempo

 

Da origini molto lontane che si perdono nel tempo e che rimangono impresse nella memoria di un bambino, oggi divenuto adulto, nasce l’olio extravergine d’oliva Terra Cruda®. Un’etichetta riconoscibile e distintiva grazie a un design fresco e accattivante che presenta un prodotto d’eccellenza di cui vi racconterò la storia.

Dobbiamo partire dalla fine del 1800, esattamente dal 1898.
In quel periodo il mio bisnonno Alfio Rapisarda, imprenditore agricolo, conduceva un vasto appezzamento di terreno di circa 20 ettari, vocato soprattutto a frumento e situato in una frazione di Centuripe, in provincia di Enna, soprannominata “Cugnu di Carcaci“. Un terreno argilloso, la cui terra – data la vicinanza alle sponde del fiume Simeto – si manteneva fertile e prodiga di una natura rigogliosa, che ancora oggi, con una consistenza pesante e compatta, fa da humus materno a degli ulivi che hanno ormai compiuto mezzo secolo, immersi in una vallata felice.

Tornando indietro non con i ricordi ma attraverso ciò che mi è stato tramandato nei racconti, vi narro che il mio bisnonno, già a metà degli anni ’40, impegnato in tante altre attività imprenditoriali, decise di cedere questo grande appezzamento dividendolo ai propri figli e nipoti, e quindi a mio nonno Gaetano, a lui toccò una parte collinare, a forma di L, nella sponda nord-est che guardava la maestosa Muntagna: l’Etna. A sud gli immensi e sterminati monti Erei del nisseno. Per più di trent’anni il terreno fu condotto ad agrumeto, con la piantumazione e coltura di una razza qualitativamente tra le migliori prodotte nel nostro territorio: il Tarocco. Erano gli anni ’50 e ’60 Con l’avanzare dell’età, mio nonno Gaetano, data l’età e ormai stanco, cedette tutto a mio padre. Così agli inizi degli anni ’70, Alfio Rapisarda, mio padre, iniziò questa faticosa ma appagante, a suo dire, avventura. Per parecchi anni continuò a coltivarlo ad agrumeto.

La voglia di andare con mio padre in questo fantomatico giardino era tanta, ma lui mi faceva attendere, mi diceva sempre che ancora non era il momento, che ancora ero troppo piccolo, per accompagnarlo. Io aspettavo paziente. Da piccolo andavo spesso con lui. Nel pomeriggio capitava che uscisse per delle commesse e in paese si soffermava a comprare attrezzature per l’agrumeto. Fu quello il periodo in cui lo sentivo spesso lamentarsi con i colleghi di lavoro o con degli amici su come andavano le cose riguardo il mercato delle arance.

In macchina mi raccontò di alcuni meccanismi di mercato a favore di altre nazioni come la Spagna, naturalmente a quei tempi non capii, a primo acchito, granché di quei discorsi, ma una cosa era certa, mio padre non stava facendo più grandi affari. Fu dal Natale successivo che sentivo sempre più spesso discutere i miei. Mio padre era giunto a un bivio, decidere se innestare le piante con nuove varietà di tendenza, o cambiare tipologia di coltura.Mia madre, di contro, lo invogliava a desistere, addirittura spingendolo a vendere, come avevano fatto già da tempo gli altri eredi suoi cugini. Convenivano tutti su un punto: le spese per mantenere quel dato prodotto erano diventate insostenibili. Mio padre non lo faceva certo per soldi, la passione era preponderante su tutto. Si evinceva che lo facesse per amore di quella terra, per quella natura impetuosa, e per tenere fede, quasi come fosse una missione, al progetto iniziato dal nonno, il mio bisnonno Alfio.

Così una sera di aprile del ’78 intuì il cambio di rotta, e come si sarebbero trasformati i suoi progetti iniziali., mi porto con lui da un amico che aveva un vivaio e con lui contratto l’acquisto di piante Nocellara dell’Etna. Quelle parole “Nocellara dell’Etna” mi ronzavano continuamente nella testa, con supposizioni che mi rimandavano al significato di nocciola o qualcosa che le assomigliasse, prima di giungere a casa, non riuscii più a trattenermi e d’impulso domandai, pieno di curiosità: “Papà, perché hai comprato delle noccioline? E lui parecchio sorpreso, mi rispose, chiedendomi a quali noccioline mi riferissi. “Si, hai detto all’amico tuo di consegnarti le noccioline”, ribadii io.

Fece una smorfia come a prendermi in giro, mi poggiò allora una mano sopra la testa e mi spiego il significato di quella parola: Nocellara! Che era una qualità di ulivo, un albero forte e rigoglioso e che trovava il suo habitat naturale proprio nella zona che ricadeva tra il fiume e la Muntagna, su quella fascia pedemontana. E poi aggiunse ribadendo, di andare presto a letto dopo cena, perché l’indomani saremmo dovuti partire molto presto, prima che albeggiasse, per un “grande lavoro”. Finalmente era arrivato il fatidico giorno, il giorno tanto atteso, non stavo più nella pelle, ero il bambino più felice del mondo.

Partimmo alle 5 e 30  di prima mattina, lasciandoci alle spalle la notte. Ricordo che, per le strade non c’era anima viva, all’orizzonte si intravedevano i primi bagliori dell’alba. Giunti sul posto, trovai un trambusto di mezzi pesanti, che avevano fatto gran parte del loro lavoro, erano rimaste solo qualche sparuto nodo di grosse radici si arancio. C’erano operai che andavano avanti e indietro con grandi motozappa intenti a dissodare il terreno, e mio padre con la collaborazione di un altro operaio concentrato a scavare e a mettere a dimora le piante; il mio contributo consisteva nell’estrarre la piantina da quell’involucro nero che circondava la base – in plastica spessa e lucente – che conteneva le radici.

Completavo con l’innaffiare le piantine già interrate, rassodando il terreno con una zappetta. Persi il conto dei viaggi fatti avanti e indietro quel giorno, con un secchiellino che ricordava quello del mare. Ero stanchissimo ma felice e soddisfatto di essere stato utile a quell’impresa.

Fu in quell’aprile del 1978 che nasceva quello che definisco oggi, con dire paterno, il mio uliveto. L’uliveto TerraCruda®

Nel 2017 te ne andasti, una brutta malattia ti strappò a questa vita, prematuramente, avevi ancora in mente tanti progetti da portare a termine, e non hai avuto il tempo di goderti i tuoi nipotini. Ricordo come fosse ieri il tuo corpo disteso e inerme sul letto bianco di quell’ospedale, avevi ancora 73 anni ed eri cosciente del fatto che ci stavi lasciando, stavi spesso in apprensione, si notava che c’era qualcosa che non ti faceva stare tranquillo. I tuoi pensieri andavano li, lì a quel “jardinu” come continuavi a chiamarlo tu, ti preoccupavi che dopo di te nessuno più si sarebbe preso cura di lui, dei tuoi tanto amati ulivi, ormai adulti. Così, guardandoti negli occhi, ti feci una promessa, una promessa scaturita dal cuore, una promessa dettata da anni e anni di grandi sacrifici. Oggi, nel 2020, quella promessa si è fatta olio e quell’olio ne ha fatta di strada. Adesso ha persino un’etichetta, un nome e un logo registrati.

Note dell’autore:

Ricordo un caldo pomeriggio di luglio. Dopo aver arato per tutta la mattinata, mi chiedesti il bidoncino con l’acqua. E così, dopo esserti rinfrescato, ci sedemmo all’ombra di un grande albero.

Con la mano prendesti una zolla di terra, appena arata. Ne ricordo ancora la consistenza, il calore, e quel colore marrone, un marrone scuro, ma soprattutto ne ricordo l’odore: un odore acre ma buono, un odore crudo. In quel momento mi dicesti una cosa che non ho mai più dimenticato: “Vedi figliolo, la terra è importante, tanto amore dai, tanto ne riceverai; trattala bene, perché sarà fonte di nutrimento per tutti noi.

Da questo ricordo proviene il suo nome: Terra Cruda. Lo dedico a te, Papà!

Gaetano Rapisarda

Agosto, 2020